donna africana con bambino

Dall’accoglienza all’inclusione per madri e figli rifugiati. Donne a scuola di “futuro”

E’ tutto dedicato a madri e figli rifugiati in Italia il progetto della Comunità di Sant’Egidio di Roma reso possibile grazie ad un’erogazione liberale di Merck & Co. per conto della sua consociata italiana MSD (www.msd-italia.it ) Un progetto presentato nei giorni scorsi alla Scuola di Lingua e Cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio (ww.santegidio.org), alla presenza del sottosegretario del Ministero dell’Interno Domenico Manzione e del Direttore Generale Istituto Nazionale Popolazioni Migranti Concetta Mirisola.

Un progetto che aiuterà 400 donne in 400 modi differenti, perché ognuna di loro ha una storia. Aiutare una donna significa aiutare una famiglia, ma anche innescare quel processo virtuoso di auto-aiuto che permetterà loro non solo di essere autonome, ma di poter a loro volta aiutare altre donne. In una sola parola: integrazione.

Ne parliamo con Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati.

Dottoressa Pompei, ‘Madri e Figli rifugiati: dall’accoglienza all’inclusione’, un progetto importante che vuole essere un passo in avanti, perché accoglienza non sia assistenzialismo. Come verranno aiutate queste 400 donne?

Vorrei dire ‘in 400 modi differenti’. Perché ogni donna ha una storia, ogni donna ha un’esigenza, ogni donna ha un sogno. Ma tutte hanno un filo rosso che le unisce: la consapevolezza che se vogliono davvero un futuro per sé e per i loro figli devono essere autonome. Perché l’inclusione, appunto, non può fermarsi all’accoglienza. E il primo passo è tornare a scuola. Per molte di loro è la prima volta.

Perché questo progetto si focalizza sulle donne richiedenti o titolari di protezione internazionale?

Sono le categorie più a rischio. Le più fragili. In una prima fase aiuteremo un gruppo di 200 donne, poi altre 200. Con i loro figli. Molte sono arrivate attraverso i barconi nel nostro Paese, sono sfuggite alla morte nel Mediterraneo e hanno alle spalle non solo il dramma del viaggio ma anche la violenza della tratta. Altre sono arrivate con il corridoio umanitario – l’unica strada degna di essere percorsa e che andrebbe incentivata sempre di più – e altre arriveranno nei prossimi mesi. Tra settembre e dicembre con i corridoi umanitari arriveranno altre 200 persone, per lo più donne e bambini, siriani e iracheni dal Libano, eritrei, sudanesi e somali.

In cosa consiste l’aiuto che fornite alle donne e come rendete possibile il sogno di ‘afferrare il futuro con le mani’?

Il primo passo è quello della lingua. Se non si è in grado di comunicare, di capire non si è in grado di vivere in una Società e potersi integrare. E’ dal 1982 che la Comunità di Sant’Egidio tiene corsi di Scuola di Lingua e Cultura italiana, dal livello di prima alfabetizzazione a quello di madrelingua. Attraverso la lingua forniamo alle donne il primo strumento per diventare autonome. Ma non è che il primo passo. L’italiano come chiave per aprire le porte dell’integrazione. Ma da sola la lingua non basta. Ci sono donne che hanno bisogno di essere assistite dal punto di vista legale, perché richiedere la protezione internazionale prevede degli iter burocratici che non sono così immediati. Altre hanno bisogno di kit di sussistenza per i bambini, dal latte ai pannolini e grazie a questo progetto ne potremmo aiutare sempre di più. E poi ci sono i bambini da inserire nelle scuole – cosa non sempre scontata e facile purtroppo – altri ai quali pagare la retta della mensa. E poi ci sono i piccoli gesti quotidiani che per noi possono essere banali ma che non lo sono affatto: dalle tessere telefoniche per mettersi in contatto con le famiglie lasciate nei paesi d’origine, alle tessere dell’autobus per spostarsi in città, all’accesso alle cure mediche. Grazie a questo progetto noi potremmo fare tutto questo.

Un passo importante è quello della formazione lavorativa, il vero ostacolo verso l’autonomia.

Noi facciamo il possibile affinché le donne possano essere autonome. Per questo teniamo dei corsi di economia domestica e di assistenza agli anziani in modo che possano trovarsi un lavoro in famiglia, per assistere anziani, bambini o disabili e farlo in modo professionale. In molti casi – e sarà tra le priorità di questo progetto – paghiamo loro dei tirocini formativi in modo che ci siano più prospettive di lavoro. In particolare lo facciamo con le donne nigeriane che più di altre rischiano di finire vittime della tratta e dello sfruttamento della prostituzione.

E poi c’è l’autonomia abitativa. Una casa, un lavoro, una madre, dei figli: la sfida ‘famiglia’ si vince così.

Stiamo cercando degli appartamenti ad un costo sostenibile. Con questo progetto noi vorremmo offrire un ‘contributo affitto’  per un periodo di tempo, così da aiutare le donne ad acquistare autonomia in modo che intanto possano mettere i soldi da parte, per poi proseguire da sole e prendersi carico della famiglia. Era un sogno ora grazie a questo progetto riusciremo a renderlo realtà.

La cosa che colpisce di più guardando le immagini di queste donne è che non le vedi mai piangere. Nemmeno quando scendono dai barconi improvvisati. Eppure di dolore ne devono aver visto tanto.

Su 10 migranti che arrivano molte sono donne. E sono sole. Al massimo accompagnate da figli piccoli o piccolissimi dei quali prendersi cura. Sono sole perché il marito è morto o scomparso. Talmente sole da non avere nessuno che le difende durante il viaggio dai soprusi e dalla violenza. Spesso si ritrovano madri loro malgrado. Cercano pace. Cercano futuro. Cercano un sogno per loro e per i loro figli. Sbarcano in un mondo dove tutto è estraneo, tutto così diverso.

Per alcune di loro la scuola è un’avventura nuova. Il diritto allo studio è spesso negato.

Quello dell’istruzione è un bisogno primario, come mangiare e vestirsi. Imparare la lingua è il primo passo per sentirsi meno soli, per avere meno paura, per poter stringere relazioni. Ad iniziare da quelli con gli insegnanti. In vari casi giungono migranti da realtà rurali dove l’alfabetizzazione, soprattutto delle donne, è molto arretrata. E minore è l’istruzione maggiori saranno le possibilità di restare vittime della tratta e dello sfruttamento, anche una volta arrivate in Italia.

Per molte di loro anche il lavoro è ‘una prima volta’.

E’ vero, alcune di loro non hanno mai lavorato o hanno fatto dei lavori che in Italia non ci sono e che non potranno fare. Ma le donne sanno che è questa l’unica strada per diventare padrone del loro destino. E di quelli che gli stanno accanto. Perché una donna sa essere il sostentamento non solo dei figli arrivati con lei ma anche dei parenti rimasti nel Paese d’origine. C’è una componente imprenditoriale nelle donne che non deve essere sottovalutata.

Tra le tante cose che i migranti devono subire c’è anche quella di essere considerati  ‘portatori di malattie’. Eppure i dati parlano chiaro: non c’è una correlazione tra immigrazione e malattie infettive, ad esempio. La tutela della salute è un altro diritto/dovere che insegnate alle donne affinché si prendano cura anche dei figli?

Ancora una volta dobbiamo partire dall’istruzione. Perché è tutta lì la chiave. Anche per la tutela della salute. Non è un caso che a scuola teniamo ‘lezioni di prevenzione’. Abbiamo stretto un protocollo d’intesa con l’ASL RM1 in modo che i migranti – uomini e donne- possano fare degli screening di prevenzione dei tumori, ad esempio. Quando si parla di salute degli immigrati spesso ci si limita ai dati sulle interruzioni volontarie di gravidanza dimenticando, per esempio che l’incidenza dei tumori femminili è molto alta e molto c’è da fare.  L’accesso alle cure, alla prevenzione, alla diagnosi precoce nel nostro Paese è all’avanguardia perché il Servizio Sanitario Nazionale garantisce il diritto alla salute a tutti, anche agli irregolari così si tutela la salute dell’intera collettività. Ma le donne hanno paura. Non lo sanno. Oppure hanno degli ostacoli culturali che meritano rispetto: a volte basta mettere loro a disposizione una ginecologa donna per poter abbattere questi muri. E poi pensiamo ai bambini che molte volte arrivano in Italia e non sono vaccinati o hanno dovuto interrompere il calendario vaccinale: dobbiamo tutelarli per evitare che si ammalino una volta arrivati nel nostro Paese e per favorire l’inserimento nelle scuole e tra gli altri bambini.

Tra le tante iniziative messe a punto dalla Comunità di S.Egidio ACAP c’è il Centro che sarà realizzato all’interno della struttura del San Gallicano, a Trastevere nel centro di Roma.

Sì, certo. Sarà un luogo di incontro, di assistenza, di accoglienza. Ma sarà soprattutto un luogo di ‘vita’, di quotidianità. Ci si potrà fare una doccia, come trovare un parrucchiere per tagliarsi i capelli. Sarà un luogo di aggregazione dove sentirsi meno soli. In sintesi un luogo dove si potrà ritrovare la dignità delle persone proprio attraverso i gesti più semplici ma affatto scontati

Lei vede ogni giorno tante donne. Tante ne ha aiutate e tante ne aiuterà con questo progetto. C’è una storia che più di altre le è restata nel cuore?

E’ difficile raccontarne solo una. Però c’è una donna che mi ha insegnato tanto. Rasha è siro-palestinese e questo fa di lei una povera tra i poveri, un’emarginata tra gli emarginati. E’ arrivata in Italia con il corridoio umanitario insieme ai suoi tre figli. Viveva a Damasco, in un campo profughi preso sotto assedio. Un giorno ha perso il marito e per colpa dello scoppio di una bomba è diventata cieca. Quando l’ordigno è esploso aveva in braccio il suo secondo figlio. Quando è arrivata in Italia non sembrava cieca. Era fiera, coraggiosa, autonoma. Suo figlio per il trauma subìto non parlava, non interagiva. Pensavamo fosse autistico. Rasha non si è mai arresa, si è fatta aiutare, si è messa in gioco e ha fatto sì che aiutassimo i figli. Oggi quel bambino si è aperto al mondo, va a scuola e ha ripreso a vivere. Noi stiamo aiutando Rasha a fare le pratiche per l’invalidità e grazie a questo progetto speriamo presto di poterle trovare una casa. Rasha mi ha insegnato il coraggio di una lottatrice per sé e per i suoi figli.

Questo progetto è focalizzato sulle donne. Perché puntare tutto su di loro. Proprio quella categoria che spesso è considerata ‘minore’, se non addirittura ‘inferiore’. Qual è il valore aggiunto delle donne?

La serietà. L’impegno. La volontà di andare fino in fondo a dispetto delle difficoltà della vita. E se sono madri niente le può fermare. Sanno che il loro futuro e quello dei loro figli è tutto nei loro cuori e nelle loro mani. E sono determinate ad acciuffarlo.

 

Stefania Bortolotti

 

 

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