Declino cognitivo, patologia sempre più connessa al cuore

Declino cognitivo, patologia sempre più connessa al cuore

Declino cognitivo, patologia sempre più connessa al cuore

La XXXVIII edizione del Congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto” (https://www.centrolottainfarto.com/) nei giorni scorsi alla Fortezza da Basso – Firenze, gli studi confermano che il declino cognitivo è una patologia sempre più connessa al cuore perché è stata dimostrata una correlazione evidente tra fattori di rischio cardiovascolari e declino cognitivo. Infatti, il numero di persone affette da demenza nel mondo è in progressivo aumento a causa della espansione della popolazione geriatrica, nella quale tale condizione clinica è più frequente e a causa dell’enorme diffusione dei fattori di rischio cardiovascolare nella popolazione generale.

Le potenzialità dementigene (che comporta lo sviluppo di forme di demenza) dei fattori di rischio cardiovascolare iniziano a estrinsecarsi piuttosto precocemente, ragione per cui è fondamentale una loro pronta correzione prima che possano innescare ed amplificare i meccanismi fisiopatologici sottesi al declino cognitivo.

Prima, tra tutti i fattori di rischio, è l’ipertensione la cui presenza nell’età giovane-adulta si associa ad un aumentato rischio di demenza nell’età avanzata. Recentemente i risultati dello studio Systolic Blood Pressure Intervention Trial Memory and Cognition in Decreased Hypertension (SPRIN MIND) hanno fornito un nuovo e più vigoroso supporto all’ipotesi di una possibile prevenzione della demenza attraverso un efficace trattamento dell’ipertensione arteriosa, producendo la prima convincente dimostrazione dell’efficacia della terapia antipertensiva nel prevenire il declino cognitivo senile.

Anche il diabete mellito di tipo 2 è associato ad un significativo aumento del rischio di demenza. Una recente meta-analisi di 14 studi di coorte per un totale di 2.3 milioni di individui con diabete mellito di tipo 2, di cui 102.174 affetti anche da demenza, ha dimostrato un significativo rischio di demenza con una relazione diretta tra durata e severità della malattia e rischio di sviluppare demenza.

Queste evidenze epidemiologiche trovano fondamento nella condivisione, da parte delle due entità morbose (diabete e demenza) di importanti determinanti fisiopatologici, quali la condizione di insulino-resistenza, l’aumentato stress ossidativo e la microinfiammazione cronica, tanto da spingere i ricercatori ad etichettare la malattia di Alzheimer come “diabete mellito di tipo 3”.

Anche l’obesità è fattore di rischio del declino cognitivo.

Anche i fumatori sono esposti da un lato, ad un aumentato rischio di demenza e, dall’altro, ad una aumentata probabilità di morire prima dell’età in cui più frequentemente la demenza si sviluppa, aspetto quest’ultimo che inevitabilmente rappresenta un bias interpretativo della relazione tra fumo e rischio di demenza.

Inoltre, nel corso degli ultimi anni un crescente interesse è stato rivolto dalla letteratura scientifica all’ipotesi che i disturbi del sonno possano condizionare un aumentato rischio di sviluppare sia eventi cardiovascolari che demenza. Due meta-analisi recentemente pubblicate hanno fornito la medesima dimostrazione di un significativo incremento del rischio di demenza nei pazienti che presentavano disturbi del sonno in generale (durata del sonno breve o lunga, qualità del sonno scadenze, alterazioni del ritmo circadiano, insonnia, sindrome delle apnee ostruttive). Questi disturbi del sonno sono risultati associati ad un aumentato rischio di demenza in generale e di malattia di Alzheimer.

Professor Francesco Prati Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l'Infarto

Professor Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto

“La dimensione del rischio cardiovascolare” commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – ha prodotto, grazie all’avanzare della ricerca, scenari e strumenti di valutazione di ultima generazione che hanno messo in correlazione, in modo sempre più evidente, il rischio genetico cardiovascolare e l’aterosclerosi. Negli ultimi anni, infatti, la genetica si è proposta come soluzione più precisa nel definire il rischio di sviluppare aterosclerosi od eventi infartuali. Si è insistito sulla ricerca di portatori di rare mutazioni monogeniche, che comportavano un rischio di gran lunga aumentato di sviluppare malattia coronarica. Tuttavia il rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare va considerato poligenico e va pertanto messo in relazione a più mutazioni del genoma, che insieme possono identificare una fetta della popolazione a rischio di eventi cardiaci. A partire dal 2007, sono stati individuati oltre 50 loci tra di loro indipendenti che si associavano alla possibilità di sviluppare malattia coronarica. Questi alleli, quando aggregati in uno score del rischio poligenico, sono in grado di predire la presenza di aterosclerosi e conseguentemente la possibilità che si verifichino eventi coronarici. Il rischio poligenico per l’identificazione della malattia coronarica è ora una realtà. Recenti studi hanno quantificato il rischio poligenico in oltre 50.000 soggetti. Il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari aumentava del 91% nei soggetti che appartenevano al quintile più alto, rispetto a coloro che facevano parte del quintile più basso. Lo stile di vita aveva tuttavia un ruolo importante, essendo in grado di modificare il rischio genetico. Ad esempio nel sottogruppo con il rischio genetico più alto, uno stile di vita corretto si associava a una riduzione del rischio relativo di eventi coronarici del 46%”.

 

Stefania Bortolotti

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