Il paradosso dell’attività fisica
Alla recentissima XXXVIII edizione del Congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione Centro Lotta contro l’infarto (Presidente Francesco Prati) – https://www.centrolottainfarto.com/ – svoltasi a Firenze, si è anche posto l’accento che tra i falsi miti si annovera anche quello relativo all’attività fisica: è vero che fa sempre bene?
L’attività fisica regolare è un noto fattore protettivo per la prevenzione delle malattie non trasmissibili come le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, il cancro al seno e al colon, oltre a produrre benefici per la salute mentale, ritardare l’insorgenza della demenza e contribuire al mantenimento di un adeguato peso corporeo ed al benessere generale.
Le attuali linee guida di fatto raccomandano l’attività fisica in qualsiasi forma e non distinguono tra i diversi ambiti, ad es. attività fisica svolta durante il tempo libero, domestico o lavorativo.
Nuove evidenze suggeriscono, infatti, un contrasto tra gli effetti sulla salute della attività fisica nel tempo libero rispetto a quella in ambito lavorativo.
In particolare, mentre una attività fisica anche di elevata intensità nel tempo libero è stata associata a risultati positivi sulla salute, per l’attività fisica in ambito lavorativo sono state documentate conseguenze sfavorevoli sia per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, le assenze per malattia in generale e la mortalità da tutte le cause.
Questi effetti contrastanti dell’attività fisica nel tempo libero rispetto a quella in ambito lavorativo costituiscono il cosiddetto “paradosso dell’attività fisica” che fino a pochi anni fa era stato solo marginalmente considerato.
Recentemente, il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (MACE) e di mortalità da tutte le cause in rapporto alla attività fisica lavorativa o nel tempo libero è stato indagato nel Copenaghen General Population Study, un ampio studio contemporaneo su 104.046 maschi e femmine con valutazione basale nel 2003-2004 e successivo follow-up medio di 10 anni.
Mentre per l’attività fisica nel tempo libero è stata confermata una relazione inversa con MACE e mortalità da tutte le cause, un incremento di MACE e mortalità è stato invece trovato in rapporto al livello crescente di attività fisica in ambito lavorativo da lieve a moderato a intenso.
Recenti studi epidemiologici documenterebbero quindi che una attività fisica lavorativa intensa aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e la mortalità.
Tra le ipotesi formulate, innanzitutto: l’attività fisica lavorativa è spesso fatta di sforzi ripetitivi di resistenza di brevi periodi mentre quella durante il tempo libero è solitamente aerobica, più adatta a migliorare la forma fisica e la salute cardiovascolare.
Di conseguenza l’attività fisica lavorativa aumenta e non riduce la frequenza cardiaca e la frequenza cardiaca elevata è un noto fattore di rischio cardiovascolare.
Anche la pressione arteriosa può essere aumentata da sforzi continui quali sollevamento pesi o posture statiche, con conseguenti sfavorevoli ripercussioni.
Inoltre, l’attività lavorativa, rispetto a quella ricreativa, è eseguita con più brevi periodi di recupero e spesso senza adeguato controllo delle condizioni lavorative.
Va ricordato che a livello globale, circa il 50% della forza lavorativa opera all’esterno senza sufficiente attenzione alle condizioni climatiche, alla idratazione, alle pause ristoratrici con conseguente stress calorico, cosa che non avviene durante l’attività fisica ricreativa.
Anche i turni lavorativi notturni e fattori ambientali quali rumore e inquinamento atmosferico potrebbero influire. Infine, ma non da ultimo, l’attività lavorativa intensa aumenta i livelli di infiammazione (es. proteina C reattiva) che rimangono elevati senza adeguati tempi di riposo per cui l’organismo non ha tempo per recuperare.
Stefania Bortolotti
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